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OBR: L’architettura nasce dall’arte dell’ascolto.

Maggio 2020

NOME:

OBR

INTERVISTA by:

Andrea Carloni e Carlotta Ferrati

LINKS:

OBR

ci siamo conosciuti lavorando da Renzo Piano a Genova.

promuovere – attraverso l’architettura – il senso della comunità e la valorizzazione delle specifiche identità culturali.

Come architetti, credo dovremmo creare una nuova urbanità nella quale lo stare insieme diventi un rito reale.

Bello e buono coincidono, kalòs kai agathòs.

Paolo Brescia e Tommaso Principi si sono conosciuti quando entrambi lavoravano nello studio di Renzo Piano a Genova. Dopo alcuni anni di esperienza il desiderio di partecipare a concorsi internazionali in prima persona era troppo grande, così decidono di fondare il proprio studio. OBR anche se predilige un certo tipo di architettura non è vincolato a nessun formalismo o tecnica costruttiva perché crede che sia fondamentale conoscere e apprendere non solo la cultura ma anche le conoscenze e limiti tecnici del luogo per poi  riversare tutte queste nuove informazioni nel progetto. La contestualizzazione del progetto non è legata solo alla forma ed alla funzione ma anche alla tecnica costruttiva . Per OBR sarebbe sbagliato pensare un’architettura che richiede evoluti metodi costruttivi se le maestranze del luogo non sono in grado di realizzarla.   Altro focus importante dello studio è considerare la progettazione un lavoro multidisciplinare e di gruppo che pur avendo spesso una committenza privata sa di realizzare un bene pubblico.

Tommaso Principi e Paolo Brescia

Com’è nata l’idea di fondare OBR?

OBR è prima di tutto un gruppo di amici. Tommaso ed io ci siamo conosciuti lavorando da Renzo Piano a Genova. Insieme subivamo l’irrefrenabile desiderio di partecipare ai concorsi di architettura, così è nata OBR, come un collettivo di amici. Avevamo tutti meno di trent’anni, vivevamo di pane, concorsi e tanta adrenalina. Per noi Genova rappresentava un laboratorio urbano vivente al centro del Mediterraneo, diremmo carico di mondo.

Hope City Accra

OBR lavora su più scale e in molteplici luoghi del pianeta. Cosa vuol dire gestire un tale tipo di struttura?

Creando un network tra Genova, Londra, Mumbai, New York e ora Milano, volevamo investigare nuovi modi di abitare. Per questo motivo, abbiamo orientato la nostra ricerca verso l’integrazione artificio-natura, per creare architetture sensibili in perpetuo cambiamento, stimolando l’interazione tra uomo e ambiente. Oggi OBR è un gruppo di venti architetti aperto a differenti contributi multidisciplinari, e siamo coinvolti in diversi progetti a valenza sociale con l’obiettivo di promuovere – attraverso l’architettura – il senso della comunità e la valorizzazione delle specifiche identità culturali.

In India per esempio stiamo lavorando a un progetto di un cluster nell’antica città di Jaipur. In assenza in una moderna industria dell’edilizia, la nostra intenzione è dimostrare che è possibile sviluppare un progetto di real estate con un alto grado di sostenibilità sociale, promuovendo la produzione locale e sostenendo la crescita del territorio. Lavorando con gli artigiani locali, abbiamo combinato un disegno parametrico con la tecnologia basica locale. In questo caso, l’approccio che abbiamo sviluppato è quello della multiplicity, intesa come la ripetizione (artigianale) e non la moltiplicazione (industriale). Come dire che 1+1+1+1+… è diverso da 1x… Lo scopo che stiamo perseguendo in India non è un progetto per Jaipur, ma da Jaipur.

Waterfront Area ex Fiera Genova

OBR ha avuto modo di progettare dei masterplan, secondo voi ci sono dei tratti comuni che potremmo trovare nelle città del futuro?

Come diceva Paul Virilio, viviamo in un mondo che è diventato un mondo-città, in cui circolano le stesse informazioni, immagini, messaggi, cose e persone… Ma è anche vero che le città sono sempre di più delle città-mondo, con le loro specificità etniche, culturali e differenze sociali (in un certo senso smentendo le illusioni del mondo-città).  È in questo terreno incerto tra città e mondo che crediamo si debba pensare alle città del futuro.

Milanofiori Residential Complex

Progettare lo spazio per l’uomo contemporaneo vuol dire cercare di soddisfare le esigenze di individui sempre più tecnologicamente connessi tra loro e con l’ambiente che li circonda tramite la grande quantità di informazioni che vengono prodotte. L’uomo di oggi, oltre che vivere all’interno dello spazio fisico, si relaziona con questa seconda realtà prodotta dalle nuove tecnologie. Nei vostri progetti prendete in qualche maniera in considerazione questi comportamenti?

Viviamo in un “paradosso sociale”: siamo tutti digitalmente connessi, ma non lo siamo nella realtà. Come architetti, credo dovremmo creare una nuova urbanità nella quale lo stare insieme diventi un rito reale.

Molti dei vostri edifici sono di notevoli dimensioni e sono stati progettati per ospitare e gestire flussi importanti di persone. Il progetto come viene impostato e che dati servono per gestire questi requisiti?

Ogni progetto è unico nel suo divenire ed è frutto di un grande impegno collettivo. Lavorando insieme, abbiamo capito l’importanza di coinvolgere chi ne sa più di noi. Questo ci consente di ibridare saperi diversi acquisiti facendo esperienze diverse. Il design non è una questione individuale, ma un compito comune.

Quando disegni per i grandi numeri, ti rendi conto che tutto quello che fai in architettura è pubblico. Non è come un libro che puoi decidere di chiudere e non leggere. L’architettura è lì fuori, per tutti, anche se è promossa da un privato. E questo nel settore privato rappresenta il paradosso dell’architetto: sei pagato da uno, ma lavori per tanti.

L’architettura, da sempre, non si limita a realizzare contenitori, ma tramite i suoi interventi influisce sugli equilibri sociali dei territori dove viene costruita. Come vi rapportate con questa importante caratteristica dell’architettura?

Intervistato da Paul Rabinow, Michel Foucault disse che l’architetto può produrre qualche beneficio sociale se avviene la coincidenza tra la volontà liberatoria da parte dell’architetto e la reale pratica della libertà da parte delle persone. Non so se cambieremo il mondo, ma credo che possiamo fare qualcosa per migliorarlo se ci prendiamo la responsabilità di disegnare per gli altri, tenendo insieme la gente facendo spazi in cui condividere valori comuni. Non è molto diverso dalla responsabilità pubblica che si aveva nella Polis: “Prometto che restituirò Atene ancora più bella”. Bello e buono coincidono, kalòs kai agathòs.

Paolo Brescia, oltre che un architetto, è un professore universitario che ha avuto modo di tenere lezioni in molti luoghi del pianeta. Ci sono, secondo lei, degli step quasi obbligatori che uno studente di Architettura dovrebbe affrontare per ottenere una valida formazione?

Lavorando insieme in OBR, stiamo convergendo verso un’idea di architettura come l’esito di un processo collettivo, cooperativo, evolutivo, che sviluppi valicando i confini disciplinari, prendendoti dei rischi, anche facendo degli errori, ma pur sempre esplorando il futuro e investigando l’ignoto, che poi è l’unica meta verso cui andare, se dobbiamo andare da qualche parte.

L’architettura nasce dall’arte dell’ascolto. Noi crediamo che sia un processo serendipitico: trovi qualcosa che non stavi esattamente cercando ma che scopri in quanto sei in uno stato di ricerca. Se lavori con gli altri, i risultati saranno superiori alle aspettative iniziali.

L’architettura è poietica nel senso classico di Téchne: saper come fare (bene). Oggi il tecnico sa il come. L’architetto deve chiedersi anche il perché. 

La mia raccomandazione per Ia futura generazione di architetti è: scegliti i maestri, ma sii te stesso. Ascolta, ma non ubbidire. Lavora sodo, ma sogna in grande.

Avevamo tutti meno di trent’anni, vivevamo di pane, concorsi e tanta adrenalina.

le città sono sempre di più delle città-mondo

Il design non è una questione individuale, ma un compito comune.

Oggi il tecnico sa il come. L’architetto deve chiedersi anche il perché.

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