Gennaio 2021
esplorare la dimensione umana del progetto
l’architetto attraverso la fotografia scopre dei punti di vista del tutto originali sul progetto
I social media sono un’arma a doppio taglio… pericolosamente possono minare o direzionare fortemente la nostra idea estetica.
Lorenzo Zandri è un giovane fotografo che formatosi da architetto (nasce a Roma nel 1992) ha preferito costruire immagini invece che cose. Oggi per esigenze lavorative e personali vive tra Parigi e Londra ed il viaggiare è sicuramente una componente importante del suo lavoro. Lorenzo Zandri ha uno stile colto ed esplicitamente rivolto al passato, ma tutto ciò non è il fine del suo lavoro ma solo il mezzo per scoprire la dimensione umana dei soggetti che ritrae.

Secondo te un fotografo di architettura cosa dovrebbe trasmettere di un’opera?
Ci sono architetture che parlano alla città, o al paesaggio in maniera univoca e diretta, altre invece sono composte di diverse parti, altre infine guardano dentro se stesse.
Come fotografo, provo a cogliere queste diverse sfumature e unicità e tradurle in immagine.
Molto spesso diventa una lettura tra le righe del progetto, in cui si instaura un dialogo personale tra soggetto ed oggetto, un racconto di un momento dell’architettura nel tempo.
A questo proposito, l’atto del fotografare per me sta diventando un momento sempre molto intenso, proprio per la necessità di tradurre questo dialogo.
Un altro fattore che ritengo fondamentale trasmettere è una buona dose di incognita dell’architettura che si fotografa. Cerco di accendere un pretesto nel fruitore dell’immagine per andare alla ricerca dei luoghi fotografati. A riscoprire l’architettura, di persona.
Oltre a progetti personali eseguì anche molti lavori su commissione, solitamente come ti rapporti con l’architetto che ti chiede di fotografare un suo progetto?
Il momento di condivisione del progetto è per me cruciale. Data la mia formazione da architetto, cerco di instaurare sin da subito un rapporto diretto e personale con il committente, preferendo esplorare la dimensione umana del progetto e capire quali sono state le scelte che hanno dettato il processo creativo, invece che informarmi sugli aspetti più tecnici.
Nel migliore dei casi, il rapporto che si instaura fra fotografo ed architetto diventa di fiducia e altamente produttivo, in quanto permette al fotografo massima libertà di espressione e interpretazione. La collaborazione quindi aumenta di valore perché – come spesso mi è successo – anche l’architetto attraverso la fotografia scopre dei punti di vista del tutto originali sul progetto stesso.
Hai un tipo di architettura che preferisci?
In generale sono interessato ai luoghi o agli spazi con un’anima, o meglio quelli che esprimono una poetica, una memoria, un’identità. La fotografia in questo caso – come strumento di rappresentazione e riduzione del reale – riesce a svelare, o meglio suggerire, il carattere immaginario, identitario o poetico di un luogo o di un spazio.
Personalmente questo tipo di luogo può essere un’università in pieno centro città, un convento semi-abbandonato, una serra in un edificio brutalista, un casolare in costruzione nella campagna.
A livello di ricerca invece, nell’ultimo periodo mi sono soffermato sull’architettura d’autore del secolo scorso, soprattutto quella costruita tra gli anni ’30 ed ’80. Più specificamente, sulle opere di autori che si sono interrogati in maniera profonda su temi fondamentali dell’architettura, come l’abitare moderno, la gestione dello spazio e della luce, la matericità come strumento di ricerca.
Nanni Moretti in una recente intervista ha detto “che noia i giovani registi che sembrano già vecchi” . Partendo da questa provocazione, secondo te perché molti dei più interessanti ed apprezzati fotografi contemporanei, e fra questi sicuramente metterei anche il tuo lavoro, hanno un così esplicito legame con il passato?
Il mio approccio al passato è spesso dato dal mio subconscio, rispetto ad una cultura all’immagine che mi sono costruito nel tempo e che continuo ad alimentare studiando riferimenti ed immagini storiche. Penso sia un’attitudine tipica dell’uomo in realtà, quella di cercare dei riferimenti dal passato, soprattutto nelle arti figurative o visive. Per me guardare al passato è cercare un punto di vista lontano dalla facile fruizione e dal rapido consumo d’immagine dei nostri tempi. Il più possibile sincero, genuino, artigianale. Anche per questo, in molti lavori personali o commissionati, lavoro attraverso la fotografica analogica.
Oggi i social media possono dare dei feedback immediati sul consenso da parte del pubblico sul proprio lavoro. Tu come ti rapporti con questi mezzi? Avere risposte così immediate è per forza un vantaggio?
I social media sono un’arma a doppio taglio per chi li utilizza sistematicamente anche in maniera lavorativa. Certamente sono mezzi che attivano relazioni professionali e interdisciplinari molto più forti di un tempo, ma sono anche mezzi che pericolosamente possono minare o direzionare fortemente la nostra idea estetica.
Personalmente cerco di farne un uso moderato, principalmente volto alla condivisione del mio lavoro, cercando di non diventare schiavo dei feedback immediati e di essere il meno influenzato possibile dal continuo bombardamento di nuove immagini, trend ed estetiche.
Potresti raccontarmi qualcosa del tuo viaggio in Messico?
Il viaggio in Messico ha rappresentato una opportunità davvero unica e rivelativa. Oltre ad entrare in contatto con un’identità culturale ed architettonica forte e molto variegata, sono stato fortunato perchè ho avuto modo di visitare alcune delle architetture di Barragan. In quell’occasione ho compreso davvero il senso dell’esperienza della luce come strumento di distribuzione spaziale. Un momento profondamente intenso in termini di percezione dello spazio. Barragan ha utilizzato la luce insieme al colore – che muta al cambiare della luce stessa – per suggerire diversi spazi, dei sistemi di percorsi suggeriti, livelli mai sovrapposti ma conseguenti l’uno all’altro.
Perché hai scelto di trasferirti a Londra?
Aldilà di profonde motivazioni personali, ho scelto Londra come base del mio studio perché avevo necessità di rinfrescare il mio occhio sul tema urbano e architettonico, e di responsabilizzare un percorso professionale individuale. Penso che Londra offra un punto di vista sempre originale e innovativo – dalla città, alla fotografia, all’arte più in generale- e permette di spaziare molto nelle opportunità lavorative e di collaborazione.
Il progetto ROBOCOOP di cosa si tratta?
Iniziato e portato avanti con un collega architetto, ROBOCOOP è un progetto di sperimentazione artistica, che ricrea scenari architettonici non reali – attraverso installazioni urbane effimere e temporanee – spesso partendo da fonti storiche e pittoriche. ROBOCOOP mi permette di investigare in maniera più libera e sperimentale il tema dell’immagine dell’architettura.
l’architetto attraverso la fotografia scopre dei punti di vista del tutto originali sul progetto
in molti lavori personali o commissionati, lavoro attraverso la fotografica analogica.
esperienza della luce come strumento di distribuzione spaziale.