Dicembre 2020
Abbiamo sempre posato lo sguardo, e lo facciamo tutt’ora, su tante cose, non solo legate all’architettura
Secondo me quello che manca al fotorealismo è la sottrazione: per rappresentare una scena fotorealistica si deve mettere tutto
Gli incontri che facciamo con i committenti, a tratti diventano delle sedute psicologiche
Quello che secondo noi fa la differenza tra un appartamento qualunque e una casa che ti progetti … assieme all’architetto, sta proprio nell’elevare le azioni che tu fai dentro la casa stessa
Gianni Puri ed Enrica Siracusa sono due giovanissimi architetti, amici e colleghi sin dai tempi dell’università. Portano avanti l’idea di un processo progettuale ricco di riferimenti e suggestioni provenienti da diversi contesti culturali, non ultimi il teatro e la musica. La rappresentazione grafica è per loro un metodo di indagine, con il quale si spingono ben oltre i classici schemi del disegno tecnico, con l’obiettivo di produrre scenari architettonici inaspettati e sorprendenti!

Potete raccontarci brevemente della vostra formazione, non solo universitaria, ma anche legata ad altri ambiti ed esperienze che ritenete importanti per voi?
Gianni Puri: Enrica ed io ci conosciamo sin dai tempi dell’università, abbiamo affrontato dei percorsi comuni, ma ognuno di noi ha fatto anche le proprie esperienze. Un fatto significativo per la nascita del nostro studio è stata un’esperienza di autocostruzione e autoprogettazione che abbiamo condotto insieme qualche anno fa, nella quale abbiamo sviluppato e perfezionato delle nostre “ossessioni” sul costruire, sulle forme, sui materiali, ecc., che poi abbiamo provato a declinare secondo il nostro stile, uscendo dagli schemi consueti dell’autocostruzione che ci stanno un po’ stretti.
Enrica Siracusa: È stata l’esperienza più importante, dopo la quale abbiamo deciso di fondare lo studio e provare a “fare da soli”. All’inizio facevamo parte di un collettivo assieme ad altri ragazzi, nel quale siamo stati per qualche anno, per poi staccarci nel 2013 e restare io e Gianni. In studio siamo solo noi due; rimaniamo “snelli” come organico, ma all’occorrenza ci facciamo aiutare, e collaboriamo spesso con persone che hanno una formazione diversa rispetto alla nostra; siamo sempre aperti a nuove frontiere!
Il vostro studio si pone con un approccio multidisciplinare al progetto; perché questa scelta, in un mondo professionale e non, che richiede sempre più specializzazione?
GP: Principalmente perché ci viene naturale. Abbiamo sempre posato lo sguardo, e lo facciamo tutt’ora, su tante cose, non solo legate all’architettura; ad esempio ci interessiamo al cinema, alla musica, al teatro, ai videoclip, ecc.
Questo lo facciamo entrambi, perché ci fornisce l’ispirazione per i nostri lavori.
ES: Dipende molto dai nostri interessi e dalle formazioni pregresse; Gianni è anche un musicista e un illustratore, ed è chiaro che nelle sessioni di lavoro tutte queste componenti saltano fuori. Per rispondere alla tua domanda, dico che la nostra non è stata una scelta, ma tutto avviene in maniera piuttosto naturale, perché è così che siamo stati abituati a lavorare e su questo ci siamo sempre trovati d’accordo. Per ora ci sembra funzioni, poi vedremo in futuro!
La rappresentazione grafica è uno dei vostri principali metodi di indagine e lavoro; ci volete raccontare come nasce tutto questo e perché?
ES: Sicuramente dai nostri interessi, e perché secondo noi è uno strumento incredibilmente efficace. Il nostro modo di rappresentare e le tecniche che utilizziamo per farlo, come i plastici o i collages, ci aiutano a fare chiarezza.
GP: Gli strumenti che la nostra professione di architetto ci fornisce li abbiamo tutti, come ad esempio le piante o le sezioni; queste sono perfette per un certo tipo di indagine e controllo, e se vuoi anche da un certo punto in poi del processo progettuale, ma utilizzare altri tipi di linguaggi richiede uno sforzo di “sottrazione”. Quando fai un collage, ogni volta sei chiamato a scegliere cosa prendere, di quale materiale, di che colore, di che grana e scala, come ritagliarlo, ecc.: sono tutte scelte che inevitabilmente ne eliminano altre. Questo tipo di approccio permette di pulire, sottrarre, fino ad ottenere un determinato elemento che si accosta con un altro e realizza la composizione. Diciamo che per addizione si sottrae!
Qual è il vostro punto di vista sulla rappresentazione nel campo dell’architettura attuale? L’ondata dei rendering fotorealistici sta per esaurirsi in favore di un ritorno al collage e al disegno “imperfetto” oppure no?
ES: Non credo che la rappresentazione fotorealistica si stia esaurendo. Sicuramente ci sono due strade parallele: il fotorealismo secondo noi è molto utile e funzionale in determinati ambiti, ed è molto facile comunicare attraverso quel tipo di rappresentazione; più difficile è farlo come facciamo noi ed essere compresi dai committenti. In un certo senso, come intendiamo noi la rappresentazione, ci aiuta a focalizzarci e a focalizzare il cliente su alcuni aspetti. Quando decidiamo cosa rappresentare, decidiamo cosa fare emergere e cosa no, e questo riusciamo a comunicarlo anche al cliente. Diversamente, per assurdo, con un’immagine fotorealistica può succedere di perdere il focus del progetto. Noi ci sentiamo a nostro agio in questo contesto più “creativo” della produzione di immagini.
GP: Come dice Enrica il fotorealismo va benissimo per alcuni campi o per un tipo di cliente. Secondo me quello che manca al fotorealismo è la sottrazione: per rappresentare una scena fotorealistica si deve mettere tutto quello che c’è, non si può togliere. Di conseguenza, l’osservatore è chiamato a sottrarre, per mettere in evidenza quello che effettivamente conta; paradossalmente, il render fotorealistico richiede uno sforzo maggiore da parte dell’osservatore per comprenderne i tratti fondamentali. Per assurdo, tecniche più rudimentali di rappresentazione, dove già chi progetta fa una sottrazione, aiutano il cliente a mettersi in contatto con le cose importanti da guardare, che saranno poi gli elementi fondamentali di quello spazio una volta realizzato, al di là di tutto il resto che inevitabilmente ci sarà.
Quindi questo processo di “sottrazione” è ciò che vi aiuta a trasformare il progetto in qualcosa di reale e costruibile…
ES: Si assolutamente!
Voi siete molto giovani, sia anagraficamente che professionalmente, benché abbiate già fatto molti progetti; cosa vi ha spinto a restare in Italia piuttosto che andare a lavorare all’estero?
ES: Sulla bilancia vanno messe diverse cose, non c’è solo l’aspetto lavorativo; sono tante le contingenze che ti portano a fare una scelta piuttosto che un’altra, e questo vale sempre di più avanzando con l’età. Noi non crediamo che necessariamente la risposta sia andare fuori Italia, perché ogni scelta comporterebbe altre rinunce e altri tipi di problemi; abbiamo sempre voluto provarci qui, stiamo andando avanti e per adesso ci sentiamo bene così. Non è stata una scelta, ma in qualche modo è stata la vita che ci ha fatto restare qua.
GP: Se vogliamo speculare su questi concetti, si potrebbe dire, con le dovute cautele e distinzioni, che questo pensiero di “andar fuori e trovare la fortuna scappando da un paese che non ti vuole”, in un certo senso presuppone che chi fa questo ragionamento si senta in diritto di avere qualcosa che gli spetta, e che questo paese ti nega e invece qualcun altro ti può dare: di fatto poi sei tu che devi rimboccarti le maniche, sempre.
ES: Non è la risposta a tutto andare all’estero. Noi abbiamo tanti amici e colleghi che adesso si trovano in Europa e fuori da essa, si tratta comunque di una scommessa senza nessuna certezza.
Ci volete parlare del vostro progetto “Retroscena”?
GP: Questo secondo noi è un progetto particolarmente riuscito nell’operazione complessiva, quindi anche nel dialogo col cliente. Gli incontri che facciamo con i committenti, a tratti diventano delle sedute psicologiche, perché cerchiamo di capire, al di là delle esigenze concrete, cosa intendono loro quando usano certe parole nel descrivere una necessità, e come questo si può tradurre in progetto. In questo caso, siamo riusciti a creare un’ottima sinergia con la committenza, e in questo senso la rappresentazione ci ha aiutato molto, è stato uno strumento che fortunatamente i clienti hanno saputo comprendere, anche se non dai primi incontri!
ES: Siamo molto contenti del risultato, e parte di questo successo è legato sicuramente all’”apertura” dei nostri committenti; sono stati capaci di ascoltare e di fidarsi, due aspetti per niente scontati, e per questo è venuto fuori un lavoro coerente. Ci siamo sempre confrontati con loro, e nonostante le revisioni siano state tante, l’obiettivo è sempre stato di fronte a noi; volevamo dar vita ad un appartamento particolare, non ordinario, e insieme crediamo di avercela fatta.
GP: Una cosa che siamo riusciti a fare, e non sempre riesce perché dipende molto dal tipo di lavoro e cliente che hai di fronte, è quello di dare significato ad ogni ambito e ogni azione della vita domestica. Quello che secondo noi fa la differenza tra un appartamento qualunque e una casa che ti progetti tu cliente assieme all’architetto, sta proprio nell’elevare le azioni che tu fai dentro la casa stessa, nel dare una dignità o addirittura una sacralità a ciò che stai facendo; nel caso di “Retroscena”i rimandi con il teatro sono molto forti, quasi come se ci fosse una scena con gli spettatori e tu dentro casa stessi “rappresentando” quello che stai realmente facendo. È una sorta di “rappresentazione del quotidiano”. Se tu immagini le azioni che fai in bagno, sono tutto fuorché dignitose, ma sono fondamentali, per questo c’è l’ambiente apposito, e quando vi entri devi sentirti parte di esso e attratto dai suoi elementi fondamentali. In questo progetto, un altro esempio del voler dare significato agli ambienti si ha con la camera da letto: abbiamo evidenziato l’ingresso ad essa con un passaggio a forma di arco blu; formalmente è estremamente potente, ma lo è anche economicamente! Si tratta quindi di dare un peso alle cose, perché avremmo potuto metter semplicemente una porta, ma non avrebbe dato la stessa sensazione, che invece si avverte ogni volta che si va in camera.
Ci volete parlare di “Spazio modello”?
ES: “Spazio Modello” nasce da una richiesta da parte dei ragazzi di Carnets, un collettivo dello IUAV di Venezia.
C’è stato chiesto, insieme ad altri studi europei, di riflettere sul tema dello spazio di lavoro. Noi abbiamo deciso di partecipare riproducendo in scala 1:25 il nostro studio. In questo caso il lavoro è stato fatto al contrario, perché lo spazio reale del nostro studio l’abbiamo costruito noi fisicamente, e quindi ci sembrava molto divertente farne il modello a posteriori! Lo abbiamo arricchito con tante piccole informazioni nascoste su ciò che ci piace, come ad esempio dei libri in miniatura o degli EP musicali che indicano i nostri interessi. È stata un’operazione molto giocosa, finalizzata con una mostra e una pubblicazione.
GP: Dopo aver realizzato il plastico, abbiamo fatto un’animazione in loop dove si entra “dentro” il modello, che riassume il concetto di base di tutta l’operazione!
Ci volete parlare di “Trionfale 17”?
ES:“Trionfale 17” è una piccola ricerca nell’ambito di una mostra realizzata da Campo; sono stati chiamati diversi architetti ai quali veniva richiesto di riflettere su alcuni edifici romani che sono stati progettati ma non realizzati.
A noi è stato affidato un edificio enorme di Innocenzo Sabbatini. Abbiamo ragionato sull’approccio che Sabbatini stesso aveva rispetto al lotto di costruzione, che era piuttosto grande e che oggi accoglie un ospedale oftalmico.
Sabbatini ha operato considerando il lotto come una “città nella città”, e questo ci ha particolarmente affascinato; abbiamo deciso di realizzare dei collages digitali lavorando per addizioni, come aveva fatto lo stesso Sabbatini, quindi includendo vari aspetti, anche vernacolari, della città di Roma. Ci sembrava corretto agire per addizione e sovrapposizione. Abbiamo realizzato 6 immagini che sono andate in mostra nello spazio di Campo, per poi passare per un’altra mostra a Milano e infine al RIBA di Londra.
Ci volete parlare del vostro lavoro “Add it up!” per la Biennale di Venezia del 2016?
ES: In questo caso siamo stati chiamati dall’Ordine degli Architetti di Venezia assieme ad altri studi per riflettere sul futuro di Porto Marghera, un tema molto caldo anche sotto il punto di vista politico. La richiesta aveva come soggetto un vero e proprio “slancio utopistico”, ossia una visione da adesso fino a 100 anni; noi ovviamente non ci siamo tirati indietro e abbiamo ragionato su quale potesse essere il futuro di un’enorme città, grande quanto Venezia. Abbiamo immaginato una città metabolista, che potesse rinascere sulle ceneri delle attività ormai dismesse, quindi a partire dalle fabbriche. Abbiamo realizzato diverse illustrazioni utilizzando la tecnica del diorama, ragionando quindi per addizione. Erano veri e propri collages, realizzati attingendo da vari quadri e foto. Successivamente abbiamo realizzato un video nel quale spiegavamo il processo progettuale.
GP: La cosa simpatica, e un po’ assurda, di questo progetto, è che abbiamo fatto 3 cose con 3 tecniche diverse: i diorami sono collages, poi ci siamo aiutati con un stampante 3d per produrre pezzi speciali, e infine abbiamo sfruttato lo stop motion per il video. È stato molto stimolante, perché i prodotti di queste 3 tecniche raccontano la stessa storia sotto punti di vista diversi. I diorami sono quasi delle cartoline dal futuro, mentre la torre diventa un totem simbolico e il video in stop motion sembra uscito dagli anni 70!