January 2021
Ho così imparato ben presto a immaginare e sognare a occhi aperti, un’abitudine che mi porto addosso tuttora.
L’atteggiamento mentale di critica dei radical sarebbe preziosissimo oggi
una progettazione che favorisce un proliferare di relazioni, interconnessioni
Sentirsi in equilibrio con l’ambiente che ci circonda è una sensazione rara di benessere
Le case concepite finora non rispondono più alle nostre esigenze, sia come individui sia come società, al punto di contribuire a creare segregazione, solitudine, depressione
An all-round architect, Simone Subissati trained at the Florentine School, where he was influenced by the Radical movement and in particular by two of his exponents, Remo Buti and Gianni Pettena. He firmly believes in architectural design as a result of the interaction between multiple disciplines, and he pays particular attention to human relationships and how these can be influenced (or influence) the surrounding space. He lives and works between Milan and Ancona.
Currently interview available only in Italian

Ci vuoi parlare brevemente della tua formazione, non solo in ambito accademico e lavorativo, ma anche personale e artistico?
La mia ‘formazione’ credo nasca da lontano, da bambino solitario (solo e solitario, anche giocoforza); il giocare senza giocattoli ‘comprati’, mi ha portato a coltivare una grande capacità di immaginare (gli unici giocattoli che ho amato sono stati quelli costruiti artigianalmente da mio nonno e da amici di famiglia che me li regalarono). Ho così imparato ben presto a immaginare e sognare a occhi aperti, un’abitudine che mi porto addosso tuttora. Poi relativamente alla mia infanzia due ambienti che mi si sono stampati in mente indelebilmente: le case rurali, dei contadini e i magazzini che mi capitava spesso di frequentare e di starci molte ore per via del lavoro di mio padre e mia madre. Poi è stata importante l’attrattiva esercitata da altre discipline, in primis dalle varie forme di arte contemporanea; passione che ho sempre coltivato sia cimentandomi personalmente che frequentando mostre e amici artisti oltre che i viaggi continui, veder l’architettura da dentro è fondamentale; l’architettura contemporanea va vista da dentro.
Leggiamo dal tuo sito che le figure di Buti e Pettena sono state molto importanti nel tuo percorso. Quali sono gli aspetti che ti hanno colpito maggiormente dei loro insegnamenti e perché? Come credi si possano tradurre certi temi della poetica “radical” nella progettazione contemporanea?
L’atteggiamento mentale di critica dei radical sarebbe preziosissimo oggi, oserei dire fondamentale, in un’epoca di crisi dell’architettura (perché tale è), di crisi del costruito e riduzione del mestiere di architetto. Quella che era una critica sociale, un affronto al potere borghese, all’eredità razionalista e convenzionale oggi potrebbe essere tradotta in una critica alla burocrazia, alla tecnocrazia, alla volontà di informatizzare tutto, in un mondo sempre meno umanistico, dove tutto deve essere riconducibile a parametri, pseudo-oggettivi e logaritmi.
I Radical, oltre a propugnare stili di vita anticonformisti, suggerirono una ‘terza via’ alternativa a modernismo/razionalismo di maniera da una parte e a storicismo/’revival’/architettura vernacolare dall’altra e ciò varrebbe oggi come capacità di risalire agli archetipi, come capacità di concentrarsi nel Progetto (P maiuscola) come introduzione di significati, impostazioni progettuali con contenuti nuovi, non semplici maquillage, che nascono come ricomposizione continua di stilemi e figure dai quali sembra non si riesca a fuoriuscire (la cosiddetta ‘architettura del rendering’) o progetto (stavolta con la “p” minuscola) come mero risultato di norme e parametri, infimo tassello di un processo fatto per la stragrande parte di tutt’altro, burocrazia in testa; perché oggi -ahinoi- è così, soprattutto nell’ambito dell’architettura ‘pubblica’.
Parlando davvero di Progetto, comunque, ancora oggi come negli anni ferventi dei movimenti radical ha senso avere come brief, come imperativo, la rinuncia alla logica deterministica e funzionalista, ricercando il principio nel passato (l’archè) ma senza considerare la storia come lineare (Heritage without Replica come ho detto in forma di slogan in altre occasioni) per una progettazione che favorisce un proliferare di relazioni, interconnessioni, da cui può scaturire una serie di spazi, di ‘dispositivi’, non riconducibili a un’unica funzione e che suggeriscono essi stessi una modalità di fruizione e di godimento degli stessi. Si pensi ai vantaggi conseguenti in periodi di lockdown come quelli che stiamo vivendo.
È il vero lusso (“Zero luxury”): il progetto può evitare l’obbligatoria introduzione di materiali ed arredi preziosi o di design “griffato”. Poi al posto del serioso mondo dell”architettura dei rendering’ devono trovar posto il Gioco, l’elemento ludico, la relazione con il nostro lato intimo represso, anestetizzato (gioco come ‘stratagemma per non perdere la meraviglia dell’infanzia’) e l’Arte (Contemporanea) come allargamento, estensione, dei significati di occupare, costruire, abitare. In ultimo, oggi del pensiero Radical sono sicuramente attuali una certa concezione dell’ambiente che ci circonda; in qualche modo è come se avessero già prefigurato il concetto di sostenibiltà…
Sulla homepage del tuo sito Internet, veniamo accolti da immagini che hanno a che fare con la natura e il paesaggio, e solo in seconda battuta percepiamo foto di architettura e design. Da cosa deriva questa scelta?
Costruendo il nuovo sito mi sono accorto che il vecchio sito era ‘monco’ e che mancava qualcosa; mancava un soggetto, un protagonista del discorso, dei miei progetti: quindi ho pensato di introdurre alcune mie foto che non fossero progetti o architettura ma che rappresentassero il mio rapporto con la natura, con il paesaggio, citando l’ispirazione primigenia. Gaston Bachelard dice in “La poetica dello spazio” sui quattro elementi classici: aria, acqua, fuoco, terra. “Ciascuno di questi elementi è come una patria per ogni uomo, il sacramento naturale che gli arreca forza e felicità”. Ogni spazio costruito è sempre un micrococosmo, ponte, medium tra focolare domestico e natura, elementi naturali; non spazio in cui ci si apparta e basta (si pensi all’appartamento); è un pezzo di mondo infinitesimale ma è in rapporto con il tutto.
Nel profilo del tuo studio leggiamo che “il nostro punto di partenza è una comprensione del corpo, delle relazioni interpersonali e, in particolare, delle relazioni che stabiliamo con lo spazio circostante…”; come credi saranno (o sono già) queste relazioni dopo il periodo storico che stiamo vivendo, legato in particolare alla crisi pandemica?
Credo che occorrerà sempre partire dalle relazioni, dal corpo dalle relazioni come corpi e dalla relazione con la materia, con gli elementi naturali, anche dopo questa fase pandemica che stiamo vivendo; anzi a maggior ragione. “La serietà dell’esistenza umana consiste nel suo legame con la terra (…) nel suo essere come corpo” dice D. Bonhoffer in Creazione e Caduta. Sentirsi in equilibrio con l’ambiente che ci circonda è una sensazione rara di benessere ma che è necessario ricercare continuamente. Spesso è sentita come un’esigenza fisica ma nasconde in realtà un bisogno primordiale dell’essere umano; è una ricerca personale e anche collettiva ma il problema è che la maggior parte delle persone si sono desensibilizzate, anestetizzate, hanno perso la capacità di nutrirsi degli elementi naturali, dell’ambiente fisico che ci circonda; che poi ciò è la prima cosa che ci viene offerta dalla vita, gratuitamente.
Credo che uno spazio costruito ci deve far riprendere il contatto con gli elementi, in una consapevolezza di essere corpo. L’uomo oggi ha una sorta di vergogna per la sua condizione fisica, di terrestre, che “sente” fin troppo la sua fisicità; i propri limiti, la sua finitezza ed è sempre più vulnerabile, debole sofferente di fronte agli elementi. Per cui è meno tollerante agli elementi naturali, agli sbalzi di temperatura (vedendoli sempre come anomali) e pensa che l’ideale sia vivere in una bolla ambulante climatizzata a temperatura e umidità regolata e costante. L’eccesso di protezione ci indebolisce le difese immunitarie, ci rende più vulnerabili e il trattamento dell’aria meccanizzato è veicolante per certi virus. Le case concepite finora non rispondono più alle nostre esigenze, sia come individui sia come società, al punto di contribuire a creare segregazione, solitudine, depressione, problemi di salute e persino la tendenza a consumare in eccesso (ripeto, facciamo caso alla parola appartamento, spazio in cui ci si apparta, non ci si relaziona). In particolare come vivi la casa vivi il tutto, la “madre terra”, il rapporto con l’ambiente e con gli altri. Siamo portati a credere che il confine delle nostre case stia sulla soglia, ma ci dimentichiamo che fanno parte di uno spazio fisico più ampio, di uno scenario allargato, globale (flussi di energia, infrastrutture, ecosistema, ambiente) La Casa (visto che si parla di abitare) o l’edificio in generale: è un pezzo di mondo infinitesimale ma è in rapporto con il tutto.
Oggi viene spacciata per innovativa un’architettura che è ancora pienamente novecentesca e industrialista, che malgrado il suo travestimento “green” continua a propagandare e avallare stili di vita e abitudini profondamente insostenibili. Bisogna pensare a delle architetture che per come sono disposte, concepite, conformate, per prima cosa riducano al minimo le necessità energetiche e le dotazioni impiantistiche; innanzitutto partendo ad esempio dalle antiche regole della bioclimatica passiva… che stanno sempre lì e che si possono riprendere ogni volta attualizzandole, con originalità e intelligenza, prima ancora di calcolare la stratigrafia dei muri per la legge 10 e di ricorrere a quell’orrendo strato di polistirene che è il “cappotto” (e che in un futuro prossimo ci troveremo a dover smaltire).
Tra le ipotesi più accreditate come causa dell’attuale virus, sembra ci sia l’alterazione degli ecosistemi naturali a opera dell’uomo. La deforestazione, l’antropizzazione e avvicinamento degli animali all’uomo creano un ambiente propizio allo sviluppo di malattie infettive e la mobilità umana ne aumenta la diffusione, com’è il caso di Covid-19. Credo in una progettazione totale in cui l’architetto torni ad essere regista e possa sostenere, nell’ambito di un umanesimo perduto, un processo fatto di relazioni profonde e fruttuose con le scienze, la tecnologia e la biologia in primis.
Scorrendo i tuoi progetti sul sito, notiamo che le prime immagini sono quasi sempre schizzi a mano libera. Quanto è importante questo tipo di approccio per te in un periodo storico come questo, dove quasi tutto è demandato al computer?
Il progetto emerge, prende forma nei pensieri (costanti e continui che mi accompagnano ovunque) ‘modellando’ il progetto nella mia testa. Questo processo è intervallato dal disegno, dal veloce appunto, dallo schizzo, che spesso più che una verifica è un modo per fissare, appuntare, quanto mi sono costruito e immaginato in testa. Poi questo serve per comunicare, passare le informazioni ai miei collaboratori con cui si innesca, un dialogo, un contraddittorio, sempre fruttuoso. Poi si passa al computer, ma il progetto è tutto lì in quegli schizzi in quegli appunti, preziosi fino alla fine del processo; in quei pochi tratti vi si può scorgere fino alla fine del processo l’essenza, la natura l’idea che il progetto deve rappresentare e mantenere fino alla fine senza snaturarsi.
Ti va di parlarci della tua “Casa di Confine”?
Il Progetto Casa di Confine è stato sviluppato attraverso un processo che si rifà anche alle esperienze Radical. All’interno dell’apparente linearità monolitica, è un insieme complesso fatto di sottospazi e relazioni; interrelazioni tra essi e relazione con l’esterno, con quello che non è l’edificio privato, evitando i canonici elementi aggiunti: verande, tettoie, pergolati, terrazze eccetera. È una casa che va attraversata e percorsa longitudinalmente e nel percorrerla si fa l’esperienza di abitare, rifugiarsi, relazionarsi a diversi gradi e livelli; di essere completamente scoperti al vento, agli elementi e -a seconda della posizione nella linearità dell’edificio- di essere perfettamente protetti (anche con dei gradi intermedi, come ad esempio nello spazio chiuso dalla membrana microforata), in un processo esperienziale che è quasi un percorso educativo, formativo.
Casa di Confine è anche (ed è ‘ancora’, come nella storia furono le prime dimore) protezione, rifugio, “capanna”; ma essa si connette, ‘sfuma’ dal chiuso all’aperto; suggerisce nuovi usi dello spazio, nuove abitudini di vita. Non ci sono semplici stanze, ma spazi, ‘dispositivi’, aperti a un utilizzo e a funzioni imprevisti. Serie di “opportunità” (si pensi alla tanto paventata flessibilità degli spazi domestici in questi periodi di ‘domesticità forzata’). È un’architettura che si raccorda, che si accorda con la natura. I prospetti sono “a fisarmonica”. La modularità delle pannellature e delle aperture risponde a una regola ciclica sinusoidale, la più vicina alle leggi della natura; una partitura regolare si sarebbe imposta come molto rigida. Non si tratta di un guscio/’acquario’ sigillato, come nelle glass houses (prototipo della contemporanea villa modernista di lusso) con cui si pensava di ottenere un rapporto simbiotico con la natura. Qui c’è ‘porosità’; la casa può essere vissuta realmente completamente aperta (aperta non solo alla vista, ma aperta agli elementi naturali, all’aria). Un’ ideale linea di energia (un “asse cosmico”) di cui l’abitante si può nutrire, passa, attraversa la casa da sud-ovest a nord-est, dai monti Sibillini al mare. Nel progetto è presente in maniera evidente il gioco, relazione con il nostro lato intimo represso. Le ‘finestre caleidoscopio’, dispositivi e stratagemmi, introducono l’elemento ludico e artistico nel medesimo tempo, aprendo ad altro (vedi Metrocubo d’infinito di Michelangelo Pistoletto) con un gioco di specchi in quello che normalmente è solo un buco sulla muratura.
Casa di Confine si pone come soglia da attraversare, che favorisce il nutrimento dello spirito in forza dell’attraversamento che il progetto permette (agli abitanti e agli elementi naturali). Da ogni ambiente principale della casa si possono traguardare contemporaneamente i due versanti, permettendo allo sguardo di spaziare dal mare ai rilievi montuosi, per un’esperienza abitativa immersiva, simbiotica, di fusione con la natura, traendone beneficio, nutrimento. La possibilità di attraversamento è fisica, non solo dello sguardo: la casa si apre e può essere vissuta aperta. Tanto che grazie alla ventilazione naturale e all’effetto camino il raffrescamento naturale, non c’è aria condizionata. Casa di Confine fa entrare lo spazio limitrofo, lo spazio agricolo e naturale. Lo spazio esterno privato in continuità con quello agricolo, non ci sono recinzioni, delimitazioni. Fa entrare anche il territorio allargato, il paesaggio. Anzi ‘ne ha bisogno’. La sua ‘scarnificata levità’ ne ha bisogno (e ancora entrano in gioco le “finestre caleidoscopio”, posizionate contrapposte a coppie nel blocco più chiuso, ‘notte’, permettono ancora l’attraversamento, il controllo sul paesaggio esterno; riflettono, frammentano e moltiplicano quello che si vede all’esterno fanno entrare dentro il paesaggio, lo incorporano; la casa non ha opere d’arte, raffigurazioni. Le parti della casa che mancano sono riempite dall’intorno, dai campi circostanti da ‘le colline di fronte’ tanto amate da Tullio Pericoli.
In termini puramente costruttivi e architettonici Casa di Confine è concepita, fin da i suoi pezzi costitutivi minimi, elementari, per essere vissuta aperta. Le lesene strutturali verticali, in cui passano anche gli impianti, servono a tenere tutte le ante in posizione aperta senza che questo costituisca una forzatura, pratica ed estetica, senza che costituiscano intralcio fisico e visivo. Il vetro è usato al minimo, secondo la sua prerogativa fisica e non ‘tanto per dare trasparenza’. Il vetro deve essere “apribile”. Nessun altro sistema avrebbe consentito di aprire interamente certi spazi come il living con la stessa semplicità e immediatezza nel gesto, nel controllo ‘aperto-chiuso’. Tramite un filtro in tessuto incorporato -retrattile- nelle stesse lesene, si può regolare ulteriormente aria e luce. Da questa apertura, da questa porosità ne deriva un modo diverso di relazionarsi con le persone, con i vicini, con la comunità, con l’alterità; un nuovo modo di relazionarsi con la terra e con gli elementi naturali. La casa, la proprietà privata, si contamina. L’ARIA entra in casa, l’attraversa in vari gradi; l’ACQUA permea tutto il terreno lambendo la casa, entra in alcune porzioni di essa -attraverso la membrana microforata-; le semine dei campi vicini entrano, contaminano la proprietà privata; il paesaggio entra e attraversa ogni stanza; il SOLE genera naturalmente un effetto serra controllabile per un riscaldamento naturale). In alcune parti, nel “fienile”, la porzione chiusa dalla membrana microforata, entrano perennemente aria, SUONI e ODORI dall’esterno.
Nell’area a verde privata, ma aperta, c’è una sorta di “terzo paesaggio”, di “jardin de résistence”, esso altro non è che un ecotono. Una preziosa fascia di transizione (che vuole essere anche una proposta “bandiera” di approccio al progetto delle aree verdi). Questa zona che separa il giardino ad erba gramigna dai campi può essere intesa anche come un vero e proprio ‘terzo paesaggio’, un paesaggio incolto (per Gilles Clement il terzo paesaggio va dalla scala dell’aiuola incolta a quella della foresta) lasciato a sé stesso, alla sua vita biologica vegetale e animale naturale.
Casa di Confine usa gli elementi naturali per riscaldarsi, raffrescarsi e irrigarsi. (dotazioni tecnologiche separate dall’architettura, non visibili e ridotte al minimo). D’inverno sfrutta anche l’energia del sole per riscaldarsi, c’è un effetto serra controllato (ventilazione e membrane retrattili nelle aperture per controllarla); nei mesi caldi si raffresca naturalmente tramite ventilazione incrociata ed effetto camino che funziona anche negli spazi notte. Le acque pluviali in eccesso si raccolgono in serbatoi interrati ad uso l’irrigazione. La casa è staccata dalla rete gas cittadina. Una batteria di pannelli fotovoltaici è disposta ordinatamente in posizione remota e non visibile nel paesaggio; facile così la manutenzione -per ottimizzarne l’efficienza- e per una futura facile sostituzione (la tecnologia invecchia rapidamente).
Ci vuoi parlare del tuo sgabello “Mattarello”?
Lo sgabello Mattarello fa parte del progetto Cucinoteca con cui abbiamo ricevuto una menzione d’onore Premio Compasso D’Oro Internazionale nel 2015. Un laboratorio creativo di cucina, un nuovo concept per vendere utensili e oggetti per cucinare, ospitare corsi di cucina, showcooking ed eventi culturali sul cibo e l’arte conviviale. Nel progetto sono evidenti i rimandi ai grandi “spazi cucina” di memoria rurale, in cui il momento conviviale era la partecipazione ad una “vita” che prevedeva molteplici attività: dalla preparazione e consumazione delle pietanze fino al momento conviviale di incontro tra i componenti della famiglia e di accoglienza degli ospiti. Al tempo stesso, ogni elemento progettato ha dentro una dimensione ludica: l’arte di preparare i cibi, infatti, tra gli atti creativi da adulti è quello che è più simile al gioco e proprio per questo la cucina è l’alveo del momento creativo e ri-creativo dell’attività domestica. Lo sgabello fa parte di questo concept.
Ci vuoi parlare del “Centro Sportivo Conero Wellness”?
Siamo a Ancona e si tratta di uno dei nuovi progetti che sto portando a termine e che saranno realizzati prossimamente. Ho messo in pratica ed esercitato quanto detto nei principi anche in un tema “minore”, se vogliamo, come una palestra, un centro sportivo nello specifico. Il brief chiedeva un centro per attività sportive che fosse per tutti non solo per gli atleti. Abbiamo quindi evitato i cliché degli spazi di questo genere e creato un paesaggio interno lieve, colorato, variegato; invece delle seriose tonalità di grigio abbiamo lavorato con il colore e con la freschezza di alcuni materiali come il legno naturale tramite pannelli in derullato di betulla.